Al cuore stesso delle cose

 

 

E’ singolare come, in un’epoca in cui si è ormai sancita l’eclissi durevole della Storia (Debord, Halley) e la fine della Geografia (Virilio), alcuni artisti si diano pena di riprendere le coordinate del tempo e dello spazio, ancorandosi profondamente ad esse e insieme giocando sul filo di una sensibilità nuova.

Se talvolta i modi di questo atteggiamento – spesso orgogliosamente ostinato, sempre marginale – paiano tradire un impulso irriflesso alla "testimonianza", alla citazione sentimentale, allo spunto "narrativo", in altri casi il riferimento al tempo storico, alle sue cadenze e ai luoghi del suo manifestarsi sembra invece farsi strada all’interno di una vera e più conseguente strategia di attacco dissimulato.

Chi si vorrebbe segretamente colpire, quale sarebbe l’oggetto d’applicazione di questa dissidenza che si nutre di memoria, di questo nuovo irredentismo artistico internazionale non è facile dire, anche perché – si sa – oggi non esistono più "scuole" ma solo "tendenze" (spesso individuali e della durata di un quarto d’ora) e al massimo di esposizione sul piano operativo corrisponde quasi immancabilmente il minimo su quello dell’elaborazione teorica. Eppure questo graffio occulto e febbrile è lì, velato ma avvertibile in molte delle migliori esperienze attuali della musica, delle arti della visione (cinema compreso), della poesia.

Diversi, minuscoli ma inequivocabili segnali indicano che il mirino è quasi sempre puntato sull’illusione, o meglio sul sistema d’illusioni che governa la nostra contemporaneità. Le attuali condizioni di esistenza collettiva e ciò che tendono a modificare – spesso in modo permanente – nei rapporti tra le persone e con le cose, fanno schermo a un mondo e a un presente che da tempo hanno rinunciato alla pretesa di farsi amare e che ormai non chiedono altro che farsi obbedire senza troppe discussione: partendo dalla constatazione di questa realtà e agendo sullo stesso registro, certi artisti puntano, semplicemente, a smontare il meccanismo e a rivelare l’inganno. Una tavola rossa sistemata a impedire l’ingresso in una chiesa barocca, la sagoma di un icona bruna e coronata di numeri da "unire con un tratto di penna", i versetti sacri dipinti sulle mani di cento donne infagottate nei chador, non parlano altro che di questo presente, anzi ne dichiarano – urlando sottovoce – la compiuta universalità.

Il lavoro di Andrea Aquilanti, dietro il velo dell’evidente quiete di modo, di formulazione e di soggetto, mi è sempre parso segnato dallo stigma di una inaudita violenza: nella riproduzione più o meno placida di oggetti e di immagini della quotidianità, nella semplicità del richiamo a strutture architettoniche lineari, e infine nella rappresentazione ripetuta di figure anonime, senza volto, porzioni di una comunità dispersa, silenziosa, stanziale o mobile ma sempre ritratta nell’ordinarietà del suo presente, ho oscuramente avvertito il furore, segreto e gelido, della critica più radicale allo stato delle cose esistente, l’urlo della propria insubordinazione al progetto, una visione non-pacificata e non compromissoria di questa nuova umanità di sudditi senza padrone riconosciuto, quale ci viene consegnata da una Storia ormai in stato avanzato di evaporazione. E’ come se un sommovimento tellurico compresso e infinitamente potente attraversasse con la sua scossa invisibile tutto il vasto repertorio di immagini anodine che Andrea – con spirito archivista d’altri tempi – va raccogliendo in giro per le strade del mondo a testimonianza del suo disgusto e della sua compassione.

C’è infatti, in quest’assenza alienata di gravità storica, chi aleggia spensiratamente in superficie e chi al contrario vive con dolore tale condizione di uomo nuovo in un cerchio di dominio che trova utile infondere quotidianamente la morte nella vita e cancellare la stessa memoria di una nobiltà e di una grandezza umane perdute, pur sproloquiando volentieri di "libertà", "diversità" e "vita" su tutte le proprie reti di propaganda ad hoc: non mi sembra ci siano dubbi sul campo che Andrea ha scelto di frequentare. I suoi uomini, le sue donne, i suoi bambini, i suoi animali – non "mutanti" à la page bensì membri di una comunità biologica di eguali, còlti ovunque allo stato di figure – vivono da perdenti sotto lo stesso cielo, dentro lo stesso abisso che lentamente si ripopola, sottomessi a un ordine unico delle cose, a un unico pensiero e in evidente attesa di una qualsiasi possibilità di quella parola nuova, di quella speranza e di quel riscatto che la propria condizione nega loro. L’artista, da lontano e di nascosto, osserva e spietatamente registra.

Non fa eccezion, e anzi conduce fino all’incandescenza gli elementi di base, il suo nuovo lavoro: con la consueta, implacabile coerenza ci mostra un lungo filmato a camera fissa, silenzioso e dichiaratamente amatoriale, la cui scena è Roma, la grande Roma delle vestigia, perfettamente riconoscibile nel suo passato imperiale e nel suo presente di crocevia del turismo di massa. Le figurette contemporanee che in quieta alternanza progressiva invadono e liberano lo spazio antico della Storia sono sistole/diastole di questo organismo metastorico e monumentale che Andrea cattura al fine di servirsene per la sua messa in scena, per il suo gioco di illusioni: La luce chiara della proiezione occulta infatti una sorta di "fuori campo" grafico, sovrapposizione diacritica e pitturale che sul muro mima al fissità dell’architettura apparendo al di là e al di qua del campo visivo, contemporaneamente al mostrarsi delle immagini in movimento: come se il disegno ritagliasse un ruolo – oggi inedito, ma di antica e nobile ascendenza – di angelo mediatore tra visibile e invisibile. Muta ma esposta in evidenza, questa imprendibile tessitura di grafismi gioca allora a nascondino con la trivialità del nostro presente e pare voler alludere a quelle "cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" che questo stesso presente non ha alcun interesse ad indagare, ma semmai a passare sotto silenzio.

"Comprendere è fabbricare": la paradossale osservazione di Marin Marsenne che nel Seicento ha contribuito a cambiare i connotati della scienza, si attaglia dunque alla perfezione alla mentalità operativa di Andrea, Homo faber sin da i suoi esordi. Con le sue procedure anomale e le sue imprevedibili deviazioni, questo lavoro tende oggi a trasformarsi da testimonianza estrema di resistenza umana in strumento attivo e quanto mai prezioso di critica sociale: nell’evocazione, silente, a una rivolta possibile e anzi necessaria, nella premonizione, occulta, di una "signoria senza servitù", mi pare emerga chiaro l’invito – incantevole – a non lasciarsi incantare dal mondo e dalla volgarità dei suoi attuali proprietari…