L'incanto come desiderio etico

Raffaele Gavarro

Nell'affrontare un'opera, nel guardarla e ripensarla, collocandola istintivamente nel fluttuante complesso di immagini che si vanno impiantando, accumulando e sostituendo nella nostra mente, prima lo sguardo e poi a volte la formulazione del pensiero che ne consegue è vittima di un certo sgomento. Stare di fronte ad un'immagine, assecondare l'imposizione della sua identità, facilmente coincidente con un'altra che per un attimo si è fissata nella nostra retina, non importa più se nel mondo reale o nella sua versione elettronica, implica l'accettazione di questo sgomento. Ed è il presentarsi dell'immagine come elemento isolato, come punto di vista relativo ma che si fa assoluto dal momento che è sottoposta al nostro sguardo, la ragione della nascita di tale sentimento. Qualcosa di analogo avviene anche nel produttore dell'immagine, che taglia, isola, elabora e scopre il mondo, la sua complessa interezza, in una porzione infinitesimale. Possiamo anzi azzardare che si tratti di un coinvolgimento empatico: lo sgomento provato dall'autore risale a noi (fruitori) attraverso quell'immagine, in una misura che tra loro è direttamente proporzionale. A ben vedere la vocazione all'assoluto, a racchiudere il mondo, il suo senso, in una condizione di unicità, è quanto di più distante dalla natura delle immagini attuali, nonché dal nostro modo di utilizzarle. Il loro essere relativo, scartabile nell'istante successivo alla percezione, è infatti una necessità fisiologica che naturalmente ci salva dalla saturazione e dal successivo incepparsi del nostro sistema ricettivo. Stiamo quindi sottolineando l'esistenza di una differenza tra l'immagine-opera d'arte e l'immagine che è parte del flusso quotidiano, o per meglio dire stiamo affermando la continuità della sua condizione di diversità. Il fatto che tale stato proceda, nel caso soprattutto di una rappresentazione realisticamente fedele del mondo, dallo stabilirsi di un'analogia, è spesso causa di una certa confusione. Rispondere all'opera attraverso l'identificazione e la lettura delle analogie che vi appaiono, significa infatti cercare di renderla un'immagine pari alle altre, nell'ingannevole desiderio, o convinzione, che grazie a tale modalità l'arte si avvicini al mondo e alla vita. Si tratta di un atteggiamento ingenuo, che è paradossalmente alimentato dal progredire del livello tecnologico e che a sua volta induce un sempre più facile riversamento del mondo e della vita in immagini. Nell'ambito delle arti visive la madre di questo processo, la prima potente esaltazione dell'analogia, è stata naturalmente la fotografia, e subito dopo la ripresa video. Due linguaggi con i quali si continua a cimentare molta arte attuale, facendo del paradosso analogico uno strumento essenziale per segnalare le differenze che intercorrono tra l'immagine e la vita, e arrivando a quest'ultima attraverso l'approssimazione del sentimento. Prima di arrivare alla realizzazione della video installazione Incanto, come vedremo un vero e proprio mixed media, Andrea Aquilanti ha lavorato e continua a lavorare con la fotografia. Migliaia di scatti fotografici, istantanee di paesaggi, interni, scene urbane, hanno nel tempo formato un archivio, o se preferite un gigantesco album, di cui una parte minima ha subito un processo di manipolazione che ne ha alterato la funzione documentativa a favore di quella sentimentale. L'esatta analogia tra l'immagine fotografica e il mondo colto nel preciso istante dello scatto, si perde gradualmente nella trasformazione dell'immagine: la dilatazione in fotocopia e la resa monocroma, la stampa e soprattutto il "ritocco" pittorico, segnano un percorso di differenziazione a tappe. Dell'istantanea rimane quel senso di sospensione temporale, quell'attimo destinato ad un presente permanente, che solo l'aggancio alla memoria di un singolo potrebbe riportare alla dimensione del passato da cui proviene. Ma l'immagine-opera nella sua forma finale, non appartiene più nemmeno alla memoria dello stesso Aquilanti, avendo perduto gli elementi che rendevano possibile tale riconduzione. Lo sgomento si consolida nell'improvvisa consapevolezza di non avere punti di riferimento per ricostruire la trama delle analogie, per cui quello che era un banale frammento di mondo e di tempo, diventa il viatico di uno sguardo totalizzante sul Tempo e sul Mondo. Incanto è un passo oltre. Una videocamera fissa, sistemata a riprendere uno scorcio di paesaggio archeologico urbano per circa due ore. I turisti che arrivano, scendono le scale e attraversano lo spazio dell'inquadratura andando ad iniziare il classico giro di visita. Verrebbe da dire: "è una scena di vita", o anche, "è la vita in presa diretta". Potrebbe accadere di tutto in quelle due ore, come niente. La ripresa in sé non ha nulla che sia in grado di attirare la nostra attenzione, è completamente priva di quelle caratteristiche che nel quotidiano sono necessarie a farci fissare anche solo per un attimo una scena nel cervello. L'immagine proiettata sul muro è resa ancora più anonima dalla riduzione in un bianco e nero che è il risultato di un semplice effetto di bassa tecnologia. L'immagine vibra delicatamente e silenziosamente, mentre cerchi di guardare meglio avvicinandoti. Così inevitabilmente ti frapponi al proiettore e la tua ombra, cancellando l'immagine, mostra un segreto sotterraneo: alcune zone dell'immagine sono disegnate, ti sposti e l'immagine vi aderisce nuovamente. Nell'attimo in cui scopri che l'immagine ha lasciato una traccia di sé sul muro, la sua natura evanescente e sottilmente pellicolare decade insieme al banale interrogarsi sulla sua immediata presenza visiva. In quel dargli una natura sotterranea con il disegno, Aquilanti la riempie di un corpo diverso dal simulacro di ciò che rappresenta. L'immagine-opera non è più la semplice ripresa di due ore di vita in un preciso punto del paesaggio (quando mai la vita non si è irrimediabilmente banalizzata nel suo raccontarsi senza pudore attraverso le parole o le immagini), ma è l'enunciazione di una tesi sul valore dello sguardo. Si tratta in altre parole di un ribaltamento del soggetto della questione, che passa dall'immagine alle capacità denotative dello sguardo. L'incanto non è nell'immagine ma nell'azione del guardare, dello scoprire attraverso lo sguardo. Per tale ragione, come recita il titolo di questo testo, se ne può parlare in termini di aspirazione etica. Continuiamo infatti a non sapere molto della natura meno apparente delle immagini, nonostante il loro proliferare e vagare senza sosta per tutti i canali possibili della comunicazione, ma è certo che su di esse l'etica non ha giurisdizione, almeno non nei termini di un'eventuale codificazione di un imperativo morale che imponga una o più immagini come oggettivamente necessarie. Un'immagine ha sempre una sorgente soggettiva e la sua necessità dipende evidentemente dalla volontà del soggetto. Proprio come le parole e il loro concatenarsi nella formulazione di un pensiero che diventa racconto, o più in generale comunicazione. Di contro nell'azione del guardare, la tensione tra "volontà" e "dovere" legittima la riflessione problematica dell'etica. Ci troviamo così in una zona di confine, anzi in una terra di nessuno. Tra estetica ed etica non è infatti mai corso buon sangue, e rischiamo di finire nel mezzo di un fuoco incrociato. Ma come evitarlo se l'approssimazione dell'arte alla vita è, nei diversi modi possibili, un impulso comune dell'arte attuale? Affrontare la complessità dell'argomento, che deve comprendere gli approdi recenti dell'etica, in queste poche righe è a dire poco (quanto ovviamente) impossibile. Più semplice, almeno in parte, è chiarire come l'incanto possa essere considerato un desiderio etico. Nel ribaltamento che Aquilanti opera nel rapporto tra immagine e soggetto guardante, come elemento principale delle nostre preoccupazioni, la conoscenza dell'immagine rimane la finalità da raggiungere. L'incanto, lo abbiamo detto, è qui inteso come una condizione del guardante, un modo di stare davanti all'immagine che consente un accesso all'invisibile che si cela nel visibile. Ma essere incantati da un'immagine, significa esserne attratti in un modo quasi magico, una condizione sempre più rara nel nostro abituale rapporto di consumo con le immagini. La questione sottesa è però che proprio attraverso queste ultime, o almeno per una buona parte, conosciamo il mondo e ne diamo una rappresentazione coerente alla nostra capacità di comprensione. Verso di loro abbiamo quindi un "dovere" di attenzione, che deve corrispondere, essere in perfetto equilibrio con la "volontà", pena non tanto la perdita di valore delle immagini, quanto la fatale incapacità di decodificare il mondo stesso. L'incanto è quindi l'interpretazione sentimentale della necessità di trovare questo equilibrio, il desiderio di un etica attraverso cui coniugare profondamente l'arte alla vita.