Quindici

 

La strada che da Avellino porta a Quindici attraverso Forino e la montagna di Santa Cristina oggi è inondata da un bel sole primaverile e il paesaggio è bellissimo: montagne colme dei piccoli alberi di nocciole, un verde tenero, per nulla minaccioso.

Io e la mia amica Gabriella Borriello parliamo della pena delle serate televisive in cui una poltiglia di parole viene fatta scorrere sul fango di questi giorni. A guardarla da sotto, la montagna di Quindici non sembra particolarmente ferita, perché la montagna è grande e ha i suoi animali che continuano la loro vita, le nuvole che ne accarezzano la cima rotonda, le piante che fanno spuntare nuove foglie. Sotto c'è il paesaggio che ci hanno mostrato mille volte.

Io e Gabriella non chiediamo niente a nessuno. Non abbiamo microfoni da puntare sulla faccia dei sopravvissuti, né taccuini da riempire. Ruspe, telefonini, soldati, telecamere, ambulanze, un carro funebre, poliziotti: tutto questo c'è oggi nel paese di Quindici, tra case nel fango e polvere, auto accartocciate e alberi di ciliegie ancora verdi.

Il terribile è già accaduto. E come sempre gli uomini di quest'epoca arrivano in ritardo, sono sempre fuori dalla vita e vorrebbero soccorrerla da fuori, commentatori fuori tempo massimo, superflui agitatori di un mondo che ha in sé la sua quiete e non la vuole più spartire con gli uomini. Il grande fiume delle immagini e dei discorsi di questi giorni porta con sé tronchi morti, la melma necrofila della politica e del giornalismo. Ma il cielo è azzurro e il verde è da ogni parte. Camminiamo quasi sulle punte e ci accompagna un sentimento lieve. L'amarezza per questo mondo che ci sta soffocando, oggi lascia il posto al piacere di camminare, di guardare negli occhi chi passa, guardare con leggerezza, senza la smania di sapere chissà cosa. Le montagne sono grandi e le faccende degli uomini sono piccole, a Quindici o a Parigi è la stessa cosa. Nessun angolo della natura ha mai riconosciuto la presenza del nostro lavoro, l'insolente, l'inconsistente trafficare che gli uomini conducono ai margini del quadro assoluto dell'universo. La piccola valle che tiene in sé il paese di Quindici come un tiepido palmo, ci ha tolto undici anime per una semplice e rigorosa successione degli eventi. La pioggia, la terra che va giù, un tumulto scuro che ha spazzato le costruzioni esistenti e gli uomini e i loro volti: spesso persone anziane, inermi, già chiuse nell'affanno delle loro vite. Ma di un dolore così grande non c'è più niente nell'aria, nelle cose appena fuori dei corpi affranti.

La tragedia di questo paese mostra in piena luce la sordità, la cecità di chi armeggia con microfoni, telecamere e telefonini nell'aria del più luminoso mattino, nel verde smagliante dei sentieri. Dobbiamo tutti affidarci ad un destino di esuli, perché la città è incendiata. Mirate dalle bocche di fango le case sono crollate, i superstiti lasciano i loro cari morti nel fondo della creazione e devono stare con noi che non sappiamo più stare con nessuno su questa superficie di cui non si riesce più a nascondere il vuoto.

Eppure qualcosa di mirabile resiste. Prima di partire per Quindici una ragazza in una farmacia mi ha dato centomila lire che mi erano cadute dal portafogli. Una signora con la casa sventrata dalla frana ci ha offerto un caffè. Oltre il vuoto scenario della politica e della televisione è ancora possibile una condizione comune, una storia. Siamo tutti a pieno diritto in questa breve vita e nessuno può permettersi di accorciare con le sue negligenze la meraviglia di stare al mondo, di sentire il sapore di ogni giorno, con i suoi guasti o le sue piccole glorie. Dove adesso c'è il fango qualcosa piano piano riprenderà a germogliare sotto la montagna sbucciata, aperta e ignara di quanti ne ha soffocati. Noi facciamo tanti errori nelle nostre giornate in cui ci nutriamo troppo spesso di rappresentazioni o colori artificiali: non c'è arte né sangue nella società dello spettacolo, ma solo ombre. L'offesa inferta dalla natura, dopo una lunga serie di umane profanazioni, ci lascia tutti in una melma inafferrabile, diffusa.

8 maggio 1999