Intervista a un morto di nome Arminio
Cominciamo dalla metà: cosa facevate a quarant'anni?
Si litigava, si litiga sempre e si litigava per niente.
Si, ma com'era la vita?
La vita non era come niente, non sapeva di niente, a volte si parlava della vita che c'era prima e chi diceva che era più bella e chi ch'era più brutta. Si dicevano tante cose, ma non restava niente. Solo litigi, solo questo mi ricordo.
Ma tu perché scrivevi?
Ero in prigione, pensavo di salvarmi scrivendo.
Salvarti da che, mica pensavi di non morire, di sfuggire a queste ceneri?
No, pensavo di salvare la giornata, di darle un senso, un'intensità.
Ma come facevi a non accorgerti che il tuo sforzo non serviva a niente, anzi peggiorava la situazione?
Certo che peggiorava la situazione, a partire da quindici anni non ha fatto che peggiorare.
Fammi capire meglio questa storia dei litigi.
Si litigava con tutti, coi nemici, ma specialmente con gli amici.
Perché specialmente con gli amici?
Forse perché allora le amicizie nascevano tra mille equivoci. Anzi si può dire che tutta la vita sociale era basata sull'equivoco.
Equivoco rispetto a che?
Ogni cosa per funzionare deve subire un alterazione. Una macchina per mettersi in moto ha bisogno di un giro di chiave. L'equivoco forse stava nel fatto che gli uomini fingevano di sopportare l'insopportabile.
Ma cosa c'era di così insopportabile?
Tutto era insopportabile o niente era sopportabile. Io per esempio ero giunto a quarant'anni ma avevo ancora molti atteggiamenti infantili e persino molte delle parti del mio corpo erano infantili. Volevo tenere un seno in bocca dalla mattina alla sera e in fondo non facevo che chiedere questo.
E te lo davano sto seno?
Non mi davano un cazzo, e ovviamente inseguivo solo i seni che non avevo.
Non ti seguo, torniamo ai litigi.
I litigi nel mio caso nascevano da questo. Io chiedevo il seno e non me lo davano. Mi sentivo male, mi sentivo deluso, ma non sapevo vivere senza sentirmi male, senza sentirmi deluso.
Quanto è durata questa cosa?
Fino alla morte, o forse fino a qualche giorno prima. Mi sono svegliato una mattina e ho sentito che non avevo paura di morire, proprio niente, nessuna paura, neppure un filo.
Cosa hai fatto?
Mi sono sentito bene, ma sentivo anche che sarebbe durato poco, pochissimo. Sono morto due giorni dopo.
Ma per te cos'era la paura di morire?
Era tutta la vita, la faccia infuocata, i neuroni che scoppiavano, il cuore che mi abbaiava contro.
Come facevi ad andare avanti?
Scrivevo e mi dicevo che non dovevo più scrivere, chiedevo aiuto e mi dicevo che non dovevo più chiedere aiuto. Insomma, recriminavo. Non ho fatto altro nella mia vita che recriminare.
E gli altri che facevano?
Chiedilo a loro. Io pensavo di saperlo, ma ora non lo so. Gli altri mi deludevano, questo è sicuro. Io davo sempre la sensazione di sentirmi superiore agli altri. In realtà io sopravvalutavo tutti. Tutti ai miei occhi sembravano più di quel che erano. Io mi sentivo quello che ero, un tipo particolarissimo, tanto particolare che ora da morto posso rilasciare questa intervista.
Eri anche particolarmente permaloso.
Si, ma me ne sono accorto tardi, intorno ai quaranta. Diciamo che intorno ai quaranta mi sono accorto di molte cose.
Forse il tuo errore era proprio volerti accorgere di tutto.
Io avevo l'ansia. Allora ancora non avevano capito che l'ansia si comporta esattamente come un tumore, prolifera, agguanta i punti più disparati della nostra vita e non li lascia più e se li lascia sei finito.
Non voglio farti parlare dell'ansia, so che un po' ci godi, e nel tuo stato non mi sembra decente. Parlami delle donne.
Ne ho trovata una, ne ho inseguite tante.
Le inseguivi, perché?
Noi nasciamo congedandoci da una donna, forse è un congedo definitivo.
Perché le donne non ti inseguivano?
È vero, anche quelle a cui piacevo non mi hanno mai inseguito. Forse era tutto legato alla mia impazienza. Io andavo verso di loro prima che loro venissero verso di me.
Però non mi hai detto cosa pensi delle donne?
Io le cercavo per capire se mi interessavano
veramente. Per me le donne, come la letteratura erano un possibile strumento
di conoscenza. In un certo senso mi sentivo al di fuori delle tradizionali traettorie
del desiderio. Comunque le donne mi deludevano più o meno come gli uomini.
Se ci penso, ancora adesso mi viene da piangere. Giornate intere a pensare,
a parlare, poi alla fine restavo sempre fuori, fuori dalla vita, incapace di
entrarvi anche per un solo attimo. Le donne in genere si muovevano su una logica
rigida, ti voglio o non ti voglio. Per me era sempre tutto un esperimento. Ogni
secondo è un esperimento, il fatto stesso di arrivare al secondo successivo
è una semplice probabilità. Volevo stare tra esseri che sentivano
queste cose, invece mi trovavo roba vecchia, sentimenti logori e un po' facili.
Certe mattine mi svegliavo proprio che mi sentivo una pezza. Mi ricordo ancora
una poesia che scrissi sempre intorno un po' dopo i quaranta. Sentila:
ogni tanto mi chiedo
come ho fatto a fare tanti versi,
con quale musica con quale strazio
entravo e uscivo dal mio corpo,
con quale slancio adunavo in me
le aquile e le mosche?
portavo le armi nel mio nome
e nel mio cuore l'esplosivo.
ora mi sveglio mezzo morto
e l'altro mezzo
non è vivo.
Ho capito che sei in vena di autocitazioni. La poesia non m'interessa molto. Voglio sentire un po' della tua prosa, quella più scomposta, concitata.
Sai benissimo che non posso leggere. Leggimelo tu, un mio brano. Voglio vedere che effetto mi fa.
A me piace questo, te lo leggo, poi
dimmi cosa ne pensi adesso:
sonno pomeridiano. risveglio con ansia. mi sono messo a farmi la barba. prima
fitta al cuore, prima voragine d'ansia, poi piegandomi leggermente in avanti,
dolore forse vero forse immaginario al petto, comunque più vasto, più
simile a quelli dell'infarto. finita la barba, esposizione alla moglie del problema:
solita impressione di avvitarmi senza fine i n questo vortice e che prima o
poi finirò per bucare veramente la parete della vita e finirò
dall'altra parte. prima di cominciare a scrivere ho messo sulla lingua una decina
di gocce 3di lexotan. ora ho il sospetto che le fitte fossero piccoli reflussi
esofagei stimolati dal fatto che ho masticato una gomma. devo provare a smettere
di masticare gomme, ho letto su un libro che possono produrre questo tipo di
problemi. ora ho la punta delle dita fredde, fuori arrivano scrosci di pioggia
improvvisi ed io ho la sensazione che le ore future, le otto di questa sera,
le nove di domani mattina, novembre o marzo prossimo, tutto mi appare difficile
da raggiungere. e cosa posso fare per conquistarmi qualche minuto di vita? adesso
vado a cercare il mio amico mimmo, il gastroenterologo, cercherò di placarmi
parlando con lui. oggi un analista sul giornale diceva che bisogna salvare il
mondo per salvare se stessi. una cazzata indubbiamente molto elegante. anch'io
ho finito la poesia di stamattina con un concetto preso a prestito nell'arsenale
dei buoni: chi ci crede veramente che una cosa ce l'hai solo nel momento in
cui la dai. in tutto questo il padre è lontano, la sua malattia è
ancora accucciata dentro le costole o nei cuscinetti dei linfonodi. il padre
nessuno lo può guarire e a me nemmeno. mi sono fatto l'idea di essere
malato e questa è un'idea molto potente. i farmaci non lavorano contro
le idee, ma vanno semplicemente ad occupare dei recettori per bloccarne l'azione.
la mia idea di malattia è oceano e il farmaco è il secchiello
con cui dovrei svuotarlo. l'idea della malattia ha prodotto anche questa idea
della sua potenza e non si capisce se io sono al suo servizio, quale parte di
me non coincide con la mia idea di malattia? chi vuole salvarsi in me, chi vuole
salvarsi veramente? chi ha paura di vivere senza questo ombrello della malattia
che non c'è ma ci potrebbe essere, questa malattia che ogni tanto sembra
stia per arrivare, questo falso allarme continuo, questo topo che all'ultimo
momento sfugge al gatto. forse nella testa di mio padre tutto è più
semplice. comunque quando vagheggio di avere un cancro l'angoscia non è
particolarmente acuminata, uno ha comunque la sensazione di avere tempo. il
timore dell'infarto, il colpo improvviso e senza rimedio, è questa la
ghigliottina a cui sono condannato. forse per questo ieri sere leggere le prime
pagine del processo di kafka mi provocava un angoscia solida, lievemente intollerabile.
lì era arrestato senza motivo e senza sapere da chi. l'ipocondria fa
lo stesso lavoro. è un processo che si istruisce all'infinito, la sentenza
è la morte, è una sentenza pronunciata per tutti, ma a me vengono
ogni giorno i messi dell'inferno a ricordarmelo: adesso, adesso, o fra poco,
non hai scampo. l'oscuro inquisitore vive in me, prolifera come un cancro psichico,
le sue cellule nere stanno nel pensiero e da lì mi stringono al mio corpo,
non mi fanno mai svagare. il mio corpo è occupato dal nemico ed io devo
stare fuori, vedere come il nemico appicca il fuoco, lede i miei nervi, aggroviglia
i miei fili. nel mondo non può esserci compassione per questa epica lotta
che si svolge senza svolgersi. non c'è una frattura da comporre, un'ematoma
da sciogliere. il male ha un luogo in una zona di me, una zona dove abitano
le idee sbagliate, forse la mia psiche, ma anche la vostra, è un immenso
deposito di tutti gli errori del mondo, allora un poco aveva ragione l'analista,
il mondo è la sorgente di tutto, noi siamo rivoli persi nel fango. a
questo punto il discorsetto ennesimo che mi sono fatto sul male che mi faccio
potrebbe finire, senza aver concluso nulla, come sempre. una piccola navigazione
di segni fatti da me intorno alla carne che c'è in me, e questi segni
e questa carne oltre che a me appartengono al mondo. io sono semplicemente quello
che dovrebbe prendersene cura. un io forse è solo un custode che sa poco
dei luoghi da custodire. su questa strada non trovi alcun medico. la medicina
è un gioco infantile. i dottori sono dei malati che si arricchiscono
tenendo in vita le malattie degli altri. la cura vera, ammesso che ce ne sia
una, è sempre altrove. non parlo solo dei mali oscuri di un soggetto,
parlo anche dei mali raccontati nelle enciclopedie mediche. ora a mio padre
dovrebbero aspirare un po' della nube che ha nel petto per sapere se il male
è a piccole o a grandi cellule per sottoporlo a uno dei tanti deliri
terapeutici con cui campano. in realtà la vita è inarrivabile,
sempre e comunque, fuori dalla portata di qualunque farmaco. io mentre mi facevo
la barba ero al mondo da quarantadue anni, mi ero alzato da poco dal letto,
fuori pioveva, avevo masticato una gomma, basterebbero questi semplici elementi
per capire quale groviglio inestricabile sia per un corpo attraversare un attimo
e poi un altro. non ci può essere una scienza sola per entrare in questo
groviglio. e poi chi ha detto che bisogna entrarci, la questione potrebbe essere
uscirne, ma andando ancora più dentro. io, intanto, mi sono alzato, sono
andato in cucina e mi sono mangiato due prugne. ha smesso di piovere, quello
che ho scritto non guarirà né me stesso né il mondo. semplicemente
sono passati degli attimi e mi sono sembrati migliori di quelli della gomma
e della barba.
Mi ricordo, l'ho scritto in un pomeriggio d'agosto, nel periodo in cui si scoprì
la malattia di mio padre. Questo è un pezzo di un diario che volevo tenere
sulla malattia. Ma mi fermai subito. Già scrivevo cercando di mettere
a frutto i miei malesseri. M'imposi di non fare altrettanto col padre.
Che rapporto avevi coi tuoi figli?
Temevo per me, temevo per loro, io non ho fatto altro che temere.
Si, ma li seguivi, gli stavi vicino, o pensavi solo ai fatti tuoi?
A una domanda così non so rispondere. Sicuramente non godendomi niente non mi godevo neppure i figli. L'importante, comunque, è non incombere sui propri figli. Io li guardavo, li guardavo mentre guardavano la televisione.
Tu non la guardavi?
Più o meno come gli altri fino ai quaranta. Poi al massimo l'ho un po' spiata. La stessa cosa accadeva coi libri. Da un certo punto ho smesso di leggerli, mi sono limitato a spiarli.
E i giornali?
Dopo i quaranta i giornali che non contenevano il mio nome mi erano antipatici. Come hanno fatto a stampare tutte queste pagine senza citarmi neppure una volta. I giornali che non mi nominavano erano fuori strada. Questo sempre intorno ai quaranta. Poi lentamente mi è passata la smania che si parlasse di me e delle cose che scrivevo. Lentamente sono scivolato in una depressione che ha molto attutito la mia veemenza. Tutto mi riguardava assai poco.
Anche le persone?
Ero stupito dal fatto che le persone si facessero cercare da me più che cercarmi. Non capivo come facessero a non capire che io ero una cosa importante. Questo sempre intorno ai quaranta. Da un certo punto in poi le persone non le ho viste più come un'occasione per arrivare altrove. Mi sono rassegnato ad arrivarci da solo in quell'altrove. In fondo noi vogliamo implicare qualcuno nella nostra morte. Invece dobbiamo semplicemente convincerci che alla nostra morte dobbiamo arrivarci da soli.
Ma perché le persone non capivano che tu eri una cosa importante?
Perché stavano al buio o dentro false luci.
E a te cosa ti faceva luce?
M'illuminava il batticuore.
Vedo che non perso il vizio della poesia.
La poesia, ho scritto una volta, favorisce la crescita, non la salute. Uno non sa che dire e butta giù una frase come si butta una rete. Noi che facciamo i pescatori e invece siamo, fin dal primo istante, pesce già pescato.
Non abbiamo parlato delle guerre.
Le guerre del mio tempo, come gli amori, cominciavano assai prima di iniziare e finivano assai dopo la loro fine. Comunque erano guerre strane, senza un vero odio. In realtà erano guerre contro la noia.
Non capisco
Si faceva un gran parlare, sembrava sempre che il mondo fosse sul punto di spaccarsi e invece era solo in atto una lunga, inarrestabile corrosione di tutto e di tutti.
Ricchi e poveri?
Intorno ai quaranta la mia nazione era governata da un uomo molto ricco e mellifluo. Adesso non nessuno ne parla, ma allora era sulla bocca di tutti.
E quelli che si opponevano al riccone com'erano?
Lo sapevo che mi avresti fatto questa domanda. Credo sia veramente indecente per un morto nominare certa gente. Sembravano fieramente contrapposti, ma in realtà volevano le stesse cose. Da un certo punto in poi, nella mia nazione e nel mondo era chiaro che tutti volevano le stesse cose. Solo che per tenersi in vita la politica ha bisogno di persone che danno e si danno l'illusione di scontrarsi, di avere opinioni diverse. A me con la depressione la politica andò via dalla testa, insieme alle donne e ai giornali. Mi svanirono dai neuroni anche i calunniosi del mio paese. Non uscivo più in piazza. Facevo di tutto per non farmi vedere in quei pochi giorni all'anno in cui c'era qualcuno in giro.
E cosa facevi?
Andavo in bicicletta, ma sempre più lentamente. Ogni tanto pensavo a dio, alla morte, alla poesia, ma senza quel furore dei miei anni giovanili.
Allora parliamo di dio. secondo te dio è in tutte le cose?
Ti prego, non trattarmi come una persona famosa a cui si chiede di tutto. Io m'intendevo di me stesso e del mondo che passava dentro di me. Non so se dio mi sia mai passato dentro.
Cosa significa intendersi di se stesso?
Posso dirti cosa significava per gli altri. Gli altri traduco la competenza che uno ha di si sé come vanità, egoismo, narcisismo. Io invece ero semplicemente uno che spiava se se stesso, il proprio corpo, la propria vita. Una volta sono arrivato a vedere il mio io come si vede un ginocchio, un braccio.
E che impressione ti ha fatto?
Niente, in fondo a noi stessi non c'è niente. Mi ha fatto la stessa impressione di quando si vede un ginocchio, un braccio. Te l'ho già detto, la vita allora non sapeva di niente. Le guerre, gli amori, i funerali, la resa e la lotta, tutto un po' si somigliava e somigliava e tutto insieme somigliava al niente.
Quindi la vita era un po' come la morte?
Dopo la morte non c'è il nulla né la vita eterna. Queste sono idee che ci siamo inventati per allontanarci dallo spettacolo della decomposizione, per farci l'idea che noi scompariamo o andiamo da un'altra parte e che i vermi e poi la cenere non ci riguardino. E invece la faccenda continua, anche in un solo atomo, magari in quell'elettrone che fa il giro sbagliato.
Torniamo ad argomenti più umani. Una volta ti sei definito paesologo.
In quanto poeta ero uno dei cinque milioni di poeti esistenti nella mia sciagurata nazione. Definendomi paesologo li ho lasciati tutti, me ne sono andato da un'altra parte e la poesia mi ha seguito, ha capito che non volevo lasciare lei, ma le mosche che ne assillavano lo sguardo, come mosche intorno agli occhi dei cavalli.
Perché sei rimasto tutta la vita nel tuo paese?
Il mio paese era la mia clinica. Lì ero uno dei degenti, ma anche un esperto anatomo-patologo. Ero un malato che studiava le malattia degli altri. Andando fuori mi sembrava di andare nel vuoto, era come se uscissi dal mio elemento. Nessuno ha mai chiesto alle rondini di lasciare il cielo.
Che rapporto avevi coi tuoi genitori?
Il padre era l'impazienza, la madre era l'ansia. Avevo con loro lo stesso rapporto che avevo con quelle parti di me che non mi piacevano. Entrambi mancavano dell'organo per godersi la vita e di quell'organo mancavo anch'io.
Ma come, esiste un organo per godersi la vita?
Non pensare a una cosa come il pancreas, la tiroide. Ma quell'organo a volte può mancare, come manca un cromosoma.
Però hai l'organo per goderti la morte!
Diciamo che non mi lamento. Per esempio da vivo a un certo punto ho capito che i miei problemi nascevano in gran parte dal parlare, parlavo troppo, sempre più del necessario, parlavo a chi non aveva bisogno delle mie parole.
Si può dire che parlavi tanto che ora non riesci a smettere?
Lo hai detto. Questo è l'inferno, non riuscire a smettere, stare in una prigione che non finisce mai di restringersi. La mia vita a un certo punto ha perso aria, non entrava più aria da nessuna parte, neppure un filo, somigliavo a mio padre quando gli venne il tumore al polmone. Più mi agitavo per cercare l'aria e più mi mancava.
Questo accadeva perché stavi in un mondo senz'aria o perché ne consumavi troppa o perché gli altri te la rubavano?
Credo tutte e tre le cose insieme.
Com'era la vita senz'aria?
Scura, cianotica, insicura, ogni secondo disperava di raggiungere il successivo, niente di fluido, pacifico, armonico.
Però era una vita che ti faceva scrivere!
Scrivere era una maniglia, stavo sempre con le mani sulla maniglia, ma dietro non c'era la porta e neppure la parete o la casa.
E dove stavi all'ora?
Non l'ho mai capito dove stavo, nonostante che ci pensassi continuamente. Forse ero fatto per vivere da morto e per morire da vivo, capita a qualcuno ogni tanto una cosa del genere.
Ne sei sicuro?
No, ma è una cosa possibile.
E cosa ti sembra impossibile adesso?
Tutto è sempre stato, è e sarà impossibile.
Però noi adesso stiamo parlando, qualcosa sta accadendo.
Appunto, sta accadendo l'impossibile.
Intervista a un morto di nome Arminio
Cominciamo dalla metà: cosa facevate a quarant'anni?
Si litigava, si litiga sempre e si litigava per niente.
Si, ma com'era la vita?
La vita non era come niente, non sapeva di niente, a volte si parlava della vita che c'era prima e chi diceva che era più bella e chi ch'era più brutta. Si dicevano tante cose, ma non restava niente. Solo litigi, solo questo mi ricordo.
Ma tu perché scrivevi?
Ero in prigione, pensavo di salvarmi scrivendo.
Salvarti da che, mica pensavi di non morire, di sfuggire a queste ceneri?
No, pensavo di salvare la giornata, di darle un senso, un'intensità.
Ma come facevi a non accorgerti che il tuo sforzo non serviva a niente, anzi peggiorava la situazione?
Certo che peggiorava la situazione, a partire da quindici anni non ha fatto che peggiorare.
Fammi capire meglio questa storia dei litigi.
Si litigava con tutti, coi nemici, ma specialmente con gli amici.
Perché specialmente con gli amici?
Forse perché allora le amicizie nascevano tra mille equivoci. Anzi si può dire che tutta la vita sociale era basata sull'equivoco.
Equivoco rispetto a che?
Ogni cosa per funzionare deve subire un alterazione. Una macchina per mettersi in moto ha bisogno di un giro di chiave. L'equivoco forse stava nel fatto che gli uomini fingevano di sopportare l'insopportabile.
Ma cosa c'era di così insopportabile?
Tutto era insopportabile o niente era sopportabile. Io per esempio ero giunto a quarant'anni ma avevo ancora molti atteggiamenti infantili e persino molte delle parti del mio corpo erano infantili. Volevo tenere un seno in bocca dalla mattina alla sera e in fondo non facevo che chiedere questo.
E te lo davano sto seno?
Non mi davano un cazzo, e ovviamente inseguivo solo i seni che non avevo.
Non ti seguo, torniamo ai litigi.
I litigi nel mio caso nascevano da questo. Io chiedevo il seno e non me lo davano. Mi sentivo male, mi sentivo deluso, ma non sapevo vivere senza sentirmi male, senza sentirmi deluso.
Quanto è durata questa cosa?
Fino alla morte, o forse fino a qualche giorno prima. Mi sono svegliato una mattina e ho sentito che non avevo paura di morire, proprio niente, nessuna paura, neppure un filo.
Cosa hai fatto?
Mi sono sentito bene, ma sentivo anche che sarebbe durato poco, pochissimo. Sono morto due giorni dopo.
Ma per te cos'era la paura di morire?
Era tutta la vita, la faccia infuocata, i neuroni che scoppiavano, il cuore che mi abbaiava contro.
Come facevi ad andare avanti?
Scrivevo e mi dicevo che non dovevo più scrivere, chiedevo aiuto e mi dicevo che non dovevo più chiedere aiuto. Insomma, recriminavo. Non ho fatto altro nella mia vita che recriminare.
E gli altri che facevano?
Chiedilo a loro. Io pensavo di saperlo, ma ora non lo so. Gli altri mi deludevano, questo è sicuro. Io davo sempre la sensazione di sentirmi superiore agli altri. In realtà io sopravvalutavo tutti. Tutti ai miei occhi sembravano più di quel che erano. Io mi sentivo quello che ero, un tipo particolarissimo, tanto particolare che ora da morto posso rilasciare questa intervista.
Eri anche particolarmente permaloso.
Si, ma me ne sono accorto tardi, intorno ai quaranta. Diciamo che intorno ai quaranta mi sono accorto di molte cose.
Forse il tuo errore era proprio volerti accorgere di tutto.
Io avevo l'ansia. Allora ancora non avevano capito che l'ansia si comporta esattamente come un tumore, prolifera, agguanta i punti più disparati della nostra vita e non li lascia più e se li lascia sei finito.
Non voglio farti parlare dell'ansia, so che un po' ci godi, e nel tuo stato non mi sembra decente. Parlami delle donne.
Ne ho trovata una, ne ho inseguite tante.
Le inseguivi, perché?
Noi nasciamo congedandoci da una donna, forse è un congedo definitivo.
Perché le donne non ti inseguivano?
È vero, anche quelle a cui piacevo non mi hanno mai inseguito. Forse era tutto legato alla mia impazienza. Io andavo verso di loro prima che loro venissero verso di me.
Che rapporto avevi coi tuoi figli?
Temevo per me, temevo per loro, io non ho fatto altro che temere.
Si, ma li seguivi, gli stavi vicino,
o pensavi solo ai fatti tuoi?
A una domanda così non so rispondere. Sicuramente non godendomi niente
non mi godevo neppure i figli. L'importante, comunque, è non incombere
sui propri figli. Io li guardavo, li guardavo mentre guardavano la televisione.
Tu non la guardavi?
Più o meno come gli altri fino ai quaranta. Poi al massimo l'ho un po' spiata. La stessa cosa accadeva coi libri. Da un certo punto ho smesso di leggerli, mi sono limitato a spiarli.
E i giornali?
Dopo i quaranta i giornali che non contenevano il mio nome mi erano antipatici. Come hanno fatto a stampare tutte queste pagine senza citarmi neppure una volta. I giornali che non mi nominavano erano fuori strada.
E anche le persone?
Ero stupito dal fatto che le persone si facessero cercare da me più che cercarmi. Non capivo come facessero a non capire che io ero una cosa importante.
E come mai non capivano?
Perché stavano al buio o dentro false luci.
E a te cosa ti faceva luce?
M'illuminava il batticuore.
Vedo che non perso il vizio della poesia.
La poesia, ho scritto una volta, favorisce la crescita, non la salute. Uno non che dire e butta giù una frase come si butta una rete. Noi che facciamo i pescatori e invece siamo, fin dal primo istante, pesce già pescato.
Non abbiamo parlato delle guerre.
Le guerre del mio tempo, come gli amori, cominciavano assai prima di iniziare e finivano assai dopo la loro fine. Comunque erano guerre strane, senza un vero odio. In realtà erano guerre contro la noia.
Non capisco
Si faceva un gran parlare, sembrava sempre che il mondo fosse sul punto di spaccarsi e invece era solo in atto una lunga, inarrestabile corrosione di tutto e di tutti.
Ricchi e poveri?
Intorno ai quaranta la mia nazione era governata da un uomo molto ricco e mellifluo. Adesso non nessuno ne parla, ma allora era sulla bocca di tutti.
Perché se ne parlava tanto?
Per non parlare di dio, della morte, della poesia.
Che c'entra Dio con un piccolo governante?
Beh, se dio è in tutte le cose è anche in un piccolo governante.
Ma secondo te dio è in tutte le cose?
Ti prego, non trattarmi come una persona famosa a cui si chiede di tutto. Io m'intendevo di me stesso e del mondo che passava dentro di me. Non so se dio mi sia mai passato dentro.
Cosa significa intendersi di se stesso?
Posso dirti cosa significava per gli altri. Gli altri traduco la competenza che uno ha di si sé come vanità, egoismo, narcisismo. Io invece ero semplicemente uno che spiava se se stesso, il proprio corpo, la propria vita. Una volta sono arrivato a vedere il mio io come si vede un ginocchio, un braccio.
E che impressione ti ha fatto?
Niente, in fondo a noi stessi non c'è niente. Mi ha fatto la stessa impressione di quando si vede un ginocchio, un braccio. Te l'ho già detto, la vita allora non sapeva di niente. Le guerre, gli amori, i funerali, la resa e la lotta, tutto un po' si somigliava e somigliava e tutto insieme somigliava al niente.
Quindi la vita era un po' come la morte?
Dopo la morte non c'è il nulla né la vita eterna. Queste sono idee che ci siamo inventati per allontanarci dallo spettacolo della decomposizione, per farci l'idea che noi scompariamo a o andiamo da un'altra parte e che i vermi e poi la cenere non ci riguardino. E invece la faccenda continua, anche in un solo atomo, magari in quell'elettrone che fa il giro sbagliato.
Torniamo ad argomenti più umani. Una volta ti sei definito paesologo.
In quanto poeta ero uno dei cinque milioni di poeti esistenti nella mia sciagurata nazione. Definendomi paesologo li ho lasciati tutti, me ne sono andato da un'altra parte e la poesia mi ha seguito, ha capito che non volevo lasciare lei, ma le mosche che ne assillavano lo sguardo, come mosche intorno agli occhi dei cavalli.
Perché sei rimasto tutta la vita nel tuo paese?
Il mio paese era la mia clinica. Lì ero uno dei degenti, ma anche un esperto anatomo-patologo. Ero un malato che studiava le malattia degli altri. Andando fuori mi sembrava di andare nel vuoto, era come se uscissi dal mio elemento. Nessuno ha mai chiesto alle rondini di lasciare il cielo.
Che rapporto avevi coi tuoi genitori?
Il padre era l'impazienza, la madre era l'ansia. Avevo con loro lo stesso rapporto che avevo con quelle parti di me che non mi piacevano. Entrambi mancavano dell'organo per godersi la vita e di quell'organo mancavo anch'io.
Ma come, esiste un organo per godersi la vita?
Non pensare a una cosa come il pancreas, la tiroide. Ma quell'organo a volte può mancare, come manca un cromosoma.
Però hai l'organo per goderti la morte!
Diciamo che non mi lamento. Per esempio da vivo a un certo punto ho capito che i miei problemi nascevano in gran parte dal parlare, parlavo troppo, sempre più del necessario, parlavo a chi non aveva bisogno delle mie parole.
Si può dire che parlavi tanto che ora non riesci a smettere?
Lo hai detto. Questo è l'inferno, non riuscire a smettere, stare in una prigione che non finisce mai di restringersi. La mia vita a un certo punto ha perso aria, non entrava più aria da nessuna parte, neppure un filo, somigliavo a mio padre quando gli venne il tumore al polmone. Più mi agitavo per cercare l'aria e più mi mancava.
Questo accadeva perché stavi in un mondo senz'aria o perché ne consumavi troppa o perché gli altri te la rubavano?
Credo tutte e tre le cose insieme.
Com'era la vita senz'aria?
Scura, cianotica, insicura, ogni secondo disperava di raggiungere il successivo, niente di fluido, pacifico, armonico.
Però era una vita che ti faceva scrivere!
Scrivere era una maniglia, stavo sempre con le mani sulla maniglia, ma dietro non c'era la porta e neppure la parete o la casa.
E dove stavi all'ora?
Non l'ho mai capito dove stavo, nonostante che ci pensassi continuamente. Forse ero fatto per vivere da morto e per morire da vivo, capita a qualcuno ogni tanto una cosa del genere.
Ne sei sicuro?
No, ma è una cosa possibile.
E cosa ti sembra impossibile adesso?
Tutto è sempre stato, è e sarà impossibile.
Però noi adesso stiamo parlando, qualcosa sta accadendo.
Appunto, sta accadendo l'impossibile.