In apparenza niente più di un paese è lontano dal circo. Il paese
è fatto di pietre o di cemento affondato nella terra, ogni casa è
come un dente, allineata a formare la mandibola del paesaggio. Il circo è
mobile, è un tendone che gira a proporre bravure e pagliacciate. Un tendone
anacronistico nell’era in cui ci siamo congedati dalle serietà
migliori e in cui le vere bravure sono ignobilmente ignorate.
Io ci ho messo molto a capire che vivo in un paese o in un mondo, più
o meno è la stessa cosa, che era diventato un circo penoso. E questa
comprensione è venuta dall’angolo acuto dell’ipocondria,
da questa ossessiva osservazione del proprio corpo per spiarne dissesti imminenti.
Così quasi naturalmente si è andato raccogliendo questo catalogo
di oggetti smarriti quali si possono considerare oggi gli uomini e le donne.
Ci sono voluti quarant’anni d’ansia per stare nel mondo ad occhi
spalancati e con le braghe abbassate. Un’amica qualche giorno fa mi scriveva
del poeta Manndelstam davanti ai suoi carnefici, quando gli caddero i pantaloni
dalla magrezza e dai tremori…ma lui non aveva paura di avere paura e non
aveva paura di farla vedere e lasciava dolorosamente che fosse così.
Questo libro è la mia resa e non oso invocare la resa altrui. A me è
andata così, a volte sono costretto ad alzarmi improvvisamente mentre
scrivo, scappo per un po’ nella mia stanza, faccio qualche passo e poi
torno qui dove devo fare il mio numero di lanciatore di coltelli. Il bersaglio
da sfiorare sono io stesso, sono io a dover consistere nel brivido e nella precisione.
Certo, ci sono i libri, ci sono quelli che li scrivono e li hanno scritti, ci
sono gli uomini che soffrono e hanno sofferto, ma io da questo angolo acuto
posso solo lasciarmi sfilare davanti agli occhi il mio fallimento e quello degli
altri. Il sogno sarebbe quello di un fallimento condiviso, di una resa accettata
attivamente. E invece il girone infernale dei vincitori ha messo le mani sul
mondo maciullandolo, facendone poltiglia di bombe e coriandoli.
Io parlo da qui, da questo corpo inospitale, da questo corpo in cui non riesco
ad accasarmi e qui ho scritto non la realtà né l’immaginazione.
Semplicemente ho aiutato alcune cose a dirsi, a proporsi in una frase. Nessuna
storia, nessun ritratto, ma semplicemente delle prove per respirare meglio con
me stesso e con gli altri. In giro c’è un ossigeno scadente, nei
nostri corpi intossicati dall’idea del ricavo c’è poca compassione
e un amore che si gela appena fa qualche passo fuori.
Ora il discorso s’ingarbuglia, le parole devono essere scivoli o altalene
e non milizie in sillabe, pronte a guerreggiare per dare imperi effimeri alla
nostra psiche. Più che farci vandali di noi stessi e delle nostre case,
le parole devono aiutarci ad aver cura dei luoghi dove abitiamo.
Non ci sono altre terre da conquistare.